Il pragmatismo inglese e l'utopia concreta di Ernesto Rossi

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DR_PanG
icon13  view post Posted on 30/7/2007, 11:54




Il pragmatismo inglese e l'utopia concreta di Ernesto Rossi
L'attualità di Abolire la miseria
Ernesto Rossi Ernesto Rossi

Perché Abolire la miseria? Perché l'Associazione dei Radicali calabresi, questa rivista e lo stesso sito web scelgono Abolire la miseria di Ernesto Rossi?
Per dei radicali che vivono in Calabria e condividono l'azione politica e culturale del movimento animato da Marco Pannella, Abolire la miseria assume un significato ed un valore che va oltre l'opera più nota e indubbiamente più rappresentativa del pensiero di Ernesto Rossi.
Abolire la miseria subisce la stessa censura che ha subito, in Italia nel dopoguerra, il suo autore. Pertanto, diventa necessario descrivere sinteticamente un profilo di Ernesto Rossi nato a Caserta nel 1897. Giovanissimo partì volontario in guerra e dal 1919 al 1922 collaborò al "Popolo d'Italia", il quotidiano diretto da Mussolini. In quel periodo Ernesto Rossi ha conosciuto Gaetano Salvemini, con il quale ha stabilito subito un legame di amicizia, oltre che d'ammirazione e d'affetto consolidate da una piena intesa intellettuale. Questo legame portò Ernesto Rossi ad avversare con implacabile determinazione il regime fascista. Dirigente, con Riccardo Bauer, dell'organizzazione "Giustizia e Libertà", pagò la sua intransigenza con una condanna del Tribunale speciale a venti anni di carcere, di cui nove furono scontati nelle patrie galere e quattro al confino di Ventotene. Qui, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente le sue idee federalistiche che nel 1941 ricevettero il loro suggello nel celebre Manifesto di Ventotene.
All'indomani della Liberazione, in rappresentanza del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell'Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958. Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione aderì al Partito Radicale di Pannunzio e Villabruna, ma rifiutò ogni incarico direttivo preferendo dedicarsi alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta sul "Mondo".
La collaborazione al "Mondo" fu la stagione d'oro di Ernesto Rossi e continuò ininterrotta per tredici anni, fino al 1962. I suoi articoli li raccolse in volumi famosi tra cui si ricordano: I padroni del vapore (Bari, 1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attività di pubblicista su "L'Astrolabio" di Ferruccio Parri. Nel 1966 gli fu conferito il premio "Francesco Saverio Nitti", che molto lo ripagò di un'esistenza scontrosa e assai avara di riconoscimenti accademici. L'anno successivo, il 9 febbraio del 1967, Ernesto Rossi moriva a Roma all'età di sessantanove anni.
Nell'Italia del dopoguerra dominava una inversa relazione tra egemonia culturale ed egemonia politica. Ai comunisti e quindi al marxismo andava la rappresentanza culturale e il dominio sugli intellettuali, ai democristiani la supremazia politica e l'esercizio della ricostruzione materiale del Paese. Le forze laiche evidenziavano una capacità di consensi scarsa, pagando la disfatta del Partito d'Azione alle elezioni della Costituente del 1946. Tuttavia, la cultura laica non si dimostra per niente sottomessa all'egemonia marxista da una parte e a quella clericale dall'altra. Espressione di quest'area erano i prestigiosi Salvemini, Einaudi, Croce, Bobbio, Calamandrei, Silone e altri che potevano manifestarsi attraverso gli strumenti offerti da case editrici come Laterza, La Nuova Italia e le riviste "Il Ponte", "il Mulino" e soprattutto nelle pagine del settimanale "Il Mondo". Qui, al centro di questo miscuglio culturale, si è espresso al meglio il raffinato e battagliero Ernesto Rossi.
La centralità di Rossi nel panorama politico culturale -scrive Pietro Ignazi in una raccolta di interventi su Ernesto Rossi- si deve alla particolare combinazione di tratti biografici e ideologici che gli consentono di reggere lo scontro con i due schieramenti dominanti. Rossi non ha complessi d'inferiorità e può rivolgersi con autorevolezza verso la sinistra e all'altro versante, introducendo efficacemente, nel dibattito politico, le tematiche liberali, liberiste e libertarie.
Il progetto di Abolire la miseria nasceva dall'osservazione di Rossi che, le condizioni economiche e sociali delle classi poveri anche nei paesi economicamente più progrediti erano ripugnanti alla coscienza umana e contraria ad ogni ideale di civiltà. Rossi parte dalla seguente constatazione: "La miseria è una malattia infettiva. Chi ne è colpito demoralizza tutti coloro con cui è in contatto."
Il manifesto di Ventotene

Abolire la miseria è stato scritto da Ernesto Rossi nel 1942 durante il confino politico a Ventotene e pubblicato per la prima volta nell'immediato dopoguerra. Riedito nel 1977 dalla casa editrice Laterza a cura di Paolo Sylos Labini. "Questo libro -scriveva lo stesso Rossi- è il frutto delle mie riflessioni su Economia del benessere del Pigou e su Unemployment del Beveridge." Un'analisi quindi che parte dal pragmatismo inglese del piano Beveridge, il primo sistema di Stato sociale o Welfare State (Stato del benessere) realizzato in Gran Bretagna, nel 1942 e costruito sulla cultura della solidarietà sociale, in base alla quale lo Stato interviene con sovvenzioni pubbliche a favore delle categorie meno abbienti. Le proposte contenute nel lavoro di Rossi sono di scottante attualità, poiché rintracciamo, oltre allo Stato sociale, le problematiche relative al mercato del lavoro, la struttura del salario, la dinamica occupazionale, la riorganizzazione della scuola. Il metodo usato è quello empirico, fatto di rilevazioni dei dati sul mercato del lavoro e di confronti tra forme e sistemi di assistenza sociale adottati nei paesi industrializzati, in primo luogo l'Inghilterra.
Oggi in Italia si sente il bisogno di avere una politica fortemente ispirata al pragmatismo, invece che a posizioni univoche e preconcette. Dall'esperienza inglese Ernesto Rossi desume una serie di principi che dovrebbero essere applicati in futuro per raggiungere i risultati migliori.
Rossi osservava che "la miseria è una malattia infettiva, giacché la causa della miseria è la miseria stessa." La povertà, oltre a provocare conseguenze rovinose sul fisico di chi ne è afflitto, ha effetti ancora più disastrose sul suo morale e sull'ambiente in cui vive. E i diritti politici concessi a chi non ha un minimo di vita civile sono una presa in giro.
Entrando nel vivo del sostegno sociale Ernesto Rossi sosteneva il principio che "l'assistenza non dovrebbe diminuire il senso di dignità e di responsabilità delle persone soccorse" come avveniva nelle case di lavoro inglesi, dove l'assistito veniva posto in condizioni umilianti. La "carità privata" dava anche risultati demoralizzanti per i poveri che venivano demoralizzati. "La carità privata -scriveva Rossi- può servire alle persone religiose per guadagnarsi il paradiso, ma certamente non costituisce un rimedio alla miseria".
Un altro principio importante era quello che "non si deve permettere che i soccorsi vengano sperperati in consumi voluttuari o socialmente riprovevoli, lasciando insoddisfatti i più elementari diritti della vita civile". Il concetto centrale era quello di garantire a tutti quelli che ne facevano richiesta di oggetti e servizi necessari alla vita come il cibo, la casa, abiti, mobilio di base di modesta qualità ma essenziali. Un minimo per poter vivere dignitosamente percepito però non come carità ma ricevuto come un diritto, perché ciascuno lo avrebbe pagato attraverso due o tre anni di servizio del lavoro obbligatorio per tutti, uomini e donne in età giovanile. E' l'attualità del pensiero di Ernesto Rossi, l'idea del servizio civile e la possibilità di separare nel tempo lavoro e reddito. I servizi in natura dovrebbero essere forniti da quello che Rossi chiama l'esercito del lavoro, vale a dire un sistema di prestazioni gratuiti a cui saranno tenuti tutti i cittadini per una frazione della loro vita. I giovani terminata la loro preparazione scolastica sarebbero obbligati a prestare servizio in tale esercito del lavoro. La soluzione punta su una scuola accessibile a tutti (cosa che ai tempi di Rossi non lo era per niente) e riorganizzata nel duplice aspetto di formazione della forza lavoro e di consumo sociale. Rossi sulla scuola aveva le stesse idee di Einaudi, entrambi favorevoli a non dare titoli di studio. Gli esami, sosteneva Rossi, non si facciano all'uscita ma all'ingresso di ogni ciclo scolastico per accertare che il candidato abbia le competenze e le conoscenze necessarie per trarre profitto da quel ciclo di insegnamento. Abolendo i titoli si elimina il grave equivoco per cui i giovani vanno a scuola non per imparare ma per ottenere un diploma.
Francesco Lo Duca [email protected]
 
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