socialismo e socialdemocrazia (dal dizionario storiografico)

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DR_PanG
view post Posted on 14/8/2007, 21:02




socialismo e socialdemocrazia

Il socialismo, storicamente definito come il programma delle classi lavoratrici che si sono formate nel corso della rivoluzione industriale, ha segnato e coinvolto tutta l'epoca contemporanea; i grandi eventi della storia negli ultimi due secoli sono infatti connotati dalla presenza, in positivo o in negativo, del socialismo.

IL PROBLEMA DEFINITORIO. Esso, secondo la gran parte delle interpretazioni storiografiche e politologiche, è un prodotto della rivoluzione industriale (G.M. Bravo, Le origini del socialismo contemporaneo, 1789-1848, 1974; Storia del socialismo, a c. di J. Droz, 1972-1978, ed. it. 1973-1981; G. Lichtheim, Le origini del socialismo, 1969, ed. it. 1970). Il termine socialista, infatti, anche se talvolta è stato usato per designare il contrattualismo del Settecento e del primo Ottocento, acquista il senso proprio, moderno, nei programmi di cooperazione tra i lavoratori definiti nella prima metà del XIX secolo e negli opuscoli di propaganda dei primi organizzatori quali R. Owen (What is socialism?, 1841) e P. Leroux (Sull'individualismo e sul socialismo, 1833). Negli stessi anni, non a caso, appaiono anche i primi studi critici sulle dottrine socialiste (L. Reyband, Studi sui riformatori o socialisti moderni, 1842-1843; L. von Stein, Socialismo e comunismo nella Francia d'oggi, 1842) in cui vengono usati, quasi come sinonimi, i termini socialismo, comunismo, comunitarismo per indicare varianti diverse di un movimento i cui scopi principali erano quelli di denunciare le condizioni degli operai nel processo di trasformazione industriale e di progettare una rifondazione della società su basi comunitarie, promuovendo forme associative di vario genere. In questa prospettiva appare chiaro come fosse giustificato l'uso del termine socialismo per indicare tante personalità e correnti diverse. Questa generalizzazione comunque appartiene prevalentemente alla storiografia contemporanea agli eventi. Gli storici di oggi invece tengono a operare maggiori distinzioni. In particolare Bravo (Il socialismo prima di Marx, 1970, e La storia del socialismo 1789-1848, 1971) è particolarmente attento agli usi del termine e a mettere in rilievo i profondi legami tra le analisi dei protosocialisti e le linee di sviluppo delle loro idee in rapporto alla realtà industriale del loro tempo. Al contrario G. Duveau (Sociologie de l'utopie et autres essais, 1961) sottolinea il carattere "atemporale" delle prime teorie socialiste e il loro contenuto profondamente utopistico, mentre S. Rota Gribaudi (Il socialismo utopistico, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, 1972) ritiene l'espressione socialismo utopistico convenzionale per designare il movimento complessivo del socialismo delle origini.

SOCIALISMO E MOVIMENTO OPERAIO. Quella parte della storiografia che più si è impegnata a seguire l'evoluzione del rapporto tra socialismo e comunismo ha sottolineato come, in origine, il primo venisse inteso come un movimento bor-ghese e il secondo come un movimento della classe operaia. Con il fallimento delle rivoluzioni del 1848 la contrapposizione di significati tra socialismo e comunismo ha perso rilevanza e, come è stato evidenziato dagli storici del movimento operaio (E. Dolléans, D.H. Cole, E.J.E. Hobsbawm, W. Abendroth, G. Manacorda), il problema principale diveniva quello di costituire organizzazioni operaie autonome e di ottenere per esse il diritto di esprimersi liberamente e di avanzare rivendicazioni politiche (libertà di stampa, allargamento del suffragio) ed economiche (diritto di sciopero, contrattazione sindacale). Con la disgregazione sociale prodottasi dopo la prima guerra mondiale e in conseguenza anche della rivoluzione russa del 1917 la contrapposizione tra socialismo e comunismo tornava attuale e si riproponeva nel dibattito tra leninismo e riformismo (M. Dobb, E.H. Carr, Hobsbawm, G. Haupt). Nell'individuazione da parte degli storici delle diverse fasi di sviluppo e affermazione del socialismo una distinzione fondamentale è il passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico così come è stato fissato da K. Marx e più ancora da F. Engels (L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, 1888) attraverso la definizione di un programma di ricostruzione della società in cui diviene fondamentale l'emancipazione del proletariato. L'importanza di tale passaggio sta nel fatto che il socialismo non è più inteso come un principio "ideale", ma come una necessità storica, una forza politica che propone un metodo scientifico di analisi della società che ha i suoi punti di forza nel materialismo storico e nella teoria del plusvalore come forma specifica dello sfruttamento attuato dalla società industriale nei confronti della classe operaia (Marx). Altro e diverso momento di crescita del socialismo è indicato, dagli storici come dai politologi, nella formazione di un movimento politico della classe operaia che si organizza in vista della gestione dello stato. Esemplare in questa direzione il "caso" tedesco ampiamente studiato a partire da F. Mehring nella classica Storia della socialdemocrazia tedesca (uscita nell'edizione definitiva nel 1903) e successivamente da A. Rosenberg, Abendroth, G. Roth. È il grande dibattito che si accompagna allo svolgersi degli avvenimenti nei decenni di passaggio dalla prima alla seconda Internazionale, quando vengono abbandonate le istanze immediatamente rivoluzionarie e le prospettive anarchiche, mentre si opera la scelta della formazione dei partiti nazionali, di marcata ispirazione riformista (Haupt, La II Internazionale, 1964, ed. it. 1973). All'interno della seconda Internazionale si delinearono le principali tendenze politiche predominanti fino alla prima guerra mondiale, identificate dalla storiografia con il modello delle socialdemocrazie.

LA SOCIALDEMOCRAZIA. Del concetto teorico e storico di socialdemocrazia si sono avute molte letture e divergenti interpretazioni (L. Valiani, Questioni di storia del socialismo, 1975) Generalmente esso viene utilizzato per indicare l'insieme di quei movimenti socialisti che intendono muoversi all'interno delle istituzioni liberali e accettano, pur con certi limiti, la funzione positiva dell'economia di mercato e della stessa proprietà privata (G. Arfè, Il socialismo riformistico e la socialdemocrazia, in Storia delle idee economiche, 1972). La socialdemocrazia si pone come spazio intermedio tra il riformismo e il socialismo rivoluzionario; a differenza del primo ritiene le istituzioni liberali e democratiche insufficienti a garantire un'effettiva partecipazione popolare al potere, mentre si distingue dal socialismo rivoluzionario in quanto, pur ponendosi in prospettiva critica nei confronti del capitalismo, non ritiene ancora "maturi" i tempi per una sua radicale abolizione. Come sottolinea gran parte della storiografia, il ruolo che si assicurarono i partiti socialdemocratici nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo fu quello di lottare su due fronti: da un lato contro il riformismo borghese, che avrebbe portato il movimento operaio a legarsi troppo strettamente con il sistema capitalistico, dall'altro contro l'avventurismo rivoluzionario, che avrebbe portato a scontrarsi (e presumibilmente con gravi danni) con le strutture ancora solide del sistema dominante. Tuttavia la socialdemocrazia non tende, almeno in maniera prioritaria, a farsi garante della sopravvivenza del sistema, ma del perpetuarsi all'interno dello stesso di uno spirito di rinnovamento e di costante trasformazione; pur non aggredendo direttamente il sistema, cioè, la socialdemocrazia non gli assicura quegli apporti (per esempio, una partecipazione diretta al governo) che ne comprometterebbero l'immagine di partito di sinistra che conserva intatte le speranze nella rivoluzione. Scriveva K. Kautsky: «La socialdemocrazia è un partito rivoluzionario, non un partito che fa delle rivoluzioni» (D. Settembrini, Le basi teoriche della socialdemocrazia e del comunismo in K. Kautsky, in Socialismo e rivoluzione dopo Marx, 1974). Gli anni tra i due conflitti mondiali, con la proposizione di due modelli forti (quello sovietico e quello fascista) segnarono per la socialdemocrazia un momento di netta flessione, connotato dal dibattito teorico per l'affermazione della propria identità. Socialismo e comunismo, espressione in quel momento di due culture profondamente differenti, giunsero spesso anche allo scontro frontale, in cui i socialisti vennero trattati da "socialtraditori" o "socialfascisti", per ritrovare successivamente un progetto comune, di stretta collaborazione, contro il fascismo e il nazismo (D.H. Cole, Comunismo e socialdemocrazia, 1958, ed. it. 1968; Socialismo e fascismo, 1960, ed. it. 1968). Nel secondo dopoguerra in occidente la socialdemocrazia riassume un ruolo di forza politica determinante, fino ad arrivare alla guida di numerosi governi (in Germania, Gran Bretagna, Belgio e nei paesi scandinavi), in grado di proporre significative trasformazioni come la nazionalizzazione di alcuni settori produttivi, l'instaurazione di un'economia mista e il raggiungimento di forme di sicurezza sociale per le classi lavoratrici (B. Amoroso, Rapporto dalla Scandinavia, 1980). Le socialdemocrazie contemporanee sono, così come traspare nell'azione (e nelle analisi di storici, politologi e sociologi), partiti politici che hanno abbandonato l'idea della divisione della società in classi contrapposte e quindi ogni progetto rivoluzionario di stampo ottocentesco; del vecchio modello rimane solo la prospettiva internazionalista che, rinnovata essa pure, ribadisce il principio di un'azione comune tra tutte le forze socialiste dei singoli paesi nel rispetto delle diverse storie nazionali, delle diverse situazioni economiche, della pluralità delle tradizioni culturali e ideologiche.

• D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Laterza, Roma-Bari 1968; E. Dolléans, Storia del movimento operaio, Sansoni, Firenze 1968; W. Abendroth, Storia sociale del movimento operaio europeo, Einaudi, Torino 1971.

F. Tarozzi

 
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