Ernesto Rossi, il liberale che voleva "abolire la miseria"

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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 11/10/2007, 15:08




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Ernesto Rossi nasce nel 1897 a Caserta. A diciott'anni va in guerra come volontario. Di ritorno dal fronte, l'ostilità per i socialisti che s'erano fatti un punto d'onore a vilipendere i sacrifici dei reduci di guerra e il disprezzo per una classe politica chiusa ad ogni respiro ideale e come ripiegata su se stessa, l'una e l'altra cosa insieme vellicarono gli istinti antiparlamentari e condussero Ernesto Rossi ad accarezzare le stesse speranze ed i medesimi obiettivi dei nazionalisti prima e dei fascisti poi. Tra il '19 e il '22, inizia a scrivere sul quotidiano "Popolo d'Italia", diretto da Benito Mussolini. In questi anni conosce Gaetano Salvemini, del quale diviene fraterno amico. Di lui, Rossi scrive: "Se non avessi incontrato sulla mia strada al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci da combattimento".
Egli, infatti, divenne da lì in avanti un tenace avversario del regime. Entra, così, nelle file di "Giustizia e Libertà" divenendone presto uno dei dirigenti più in vista, ma il suo dinamismo gli costa una condanna dal Tribunale speciale a vent'anni di carcere. Gli ultimi quattro anni di pena li trascorre al confino sull'isola pontina di Ventotene.Qui conosce Altiero Spinelli e Eugenio Colorni con i quali elabora le idee che andranno a comporre il Manifesto di Ventotene.
Finita la guerra, Rossi è uno dei dirigenti del Partito d'Azione. Diviene sottosegretario alla Ricostruzione nel governo di Ferruccio Parri e, fino al 1958, presidente dell'Azienda Rilievo Alienazione Residuati (ARAR).
Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione, nel 1955, è tra i fondatori nel Partito Radicale - inizialmente chiamato Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani - con Leo Valiani, Francesco Compagna, Guido Calogero, Giovanni Ferrara, Franco Libonati, Felice Ippolito, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Nina Ruffini, Rosario Romeo, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari, ma non accetta alcun incarico direttivo perchè, dice, si sente come "un cane in chiesa".
Si dedica, quindi, alla saggistica e al giornalismo sul "Mondo" diretto da Pannunzio, col quale collabora dal 1949 al 1962.
Il periodo della sua attività al "Mondo" è il suo periodo più fervido di idee. Molto noti sono i titoli dei volumi entro i quali Rossi raccoglie scrupolosamente i suoi articoli. Tra tutti: "Aria fritta" (Bari, 1955) e "I padroni del vapore" (Bari, 1956).
Nel 1962 passa al periodico "L'Astrolabio" diretto da Ferruccio Parri.
Nel 1966 vince il premio "Francesco Saverio Nitti" e l'anno seguente, il 9 febbraio del 1967, Rossi muore a Roma quasi settantenne.
Pochi mesi prima di morire scrive: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finchè il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe. [..] Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com'è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della cattiva morte".

Contro il capitalismo inquinato e i parassitismi


Nei Padroni del vapore Ernesto Rossi, analizza la politica economica e l'atteggiamento di alcuni ambienti industriali prima e durante il fascismo, estendendo a questo periodo critiche ed appunti che aveva elaborato con riferimento alla situazione presente. Quando, nel 1955, Angelo Costa, presidente di Confindustria, scriveva a Ernesto Rossi proponendogli un contraddittorio nel quale si sarebbe fatto il possibile per far conoscere la verità sull'industria italiana all'opinione pubblica, Rossi accettando di buon grado, offrì la possibilità di dare origine ad un dibattito pubblico di fondamentale importanza per comprendere l'attualità e le istanze principali del suo pensiero liberista, contraddistinto da una netta avversione nei confronti di taluni assetti monopolistici, di cartelli privati, dei consorzi autarchici e di tutti quei meccanismi di potere tesi ad "inquinare" il capitalismo e a svolgere un ruolo di consolidamento nei confronti dei regimi autoritari che tendenzialmente sono volti a fiancheggiare. Il tema del dibattito con Costa aveva come titolo "gli industriali italiani", ossia i Padroni del vapore, i grandi capitani dell'industria italiana e tutti coloro che hanno come diretto referente la Confindustria.

Rossi, criticando il capitalismo nelle forme “statalizzate” che ha assunto in Italia, non manca di manifestare il suo entusiasmo per il capitalismo americano dove la situazione concorrenziale non attende aiuti statali e s’indirizza verso un cammino indipendente da quello del potere politico. L’altro bersaglio polemico di Rossi, indagato nella sezione dedicata alla Critica del sindacalismo, è il sindacato monopolistico e tutti gli assetti di potere in mano alle leghe sindacali, che rendono invasivo il ruolo di controllo dello stato e compromettono la libera formazione dei prezzi sul mercato. La polemica liberale contro il capitalismo è dunque volta a porre sia dei limiti ad uno sfrenato laissez faire che non interviene a ricucire le falle e le inefficienze generate dal mercato, sia a frenare gli interventi diretti di assistenza e l’estensione del lavoro sindacalizzato. La pars costruens della sua Critica alle costituzioni economiche si propone come obbiettivo quello di Abolire la miseria: imponendo delle riforme di fondamentale importanza – riforma agraria, terra a chi la coltiva – ed estendendo servizi pubblici e bisogni essenziali – cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria – a tutte le categorie sociali, la “striscia” delle miseria tenderebbe ad accorciarsi, rendendo meno eclatanti talune storture del capitalismo. Secondo Eugenio Scalfari, nella prefazione di Capitalismo inquinato, la posizione di Rossi sul capitalismo italiano coincideva in almeno sei punti con quella dei liberali sinistra: « Il libero mercato non è uno stato di natura, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono situazioni perennemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e sanzione. L’economia mista, si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite[…] favorendo il diffondersi nel sistema di un elevato grado di corruttela».

Se, dunque, la genesi del capitalismo italiano a causa di una ristrettezza iniziale di capitali e della mancata compattezza di sviluppo tra nord e sud, è riconducibile alla dipendenza e alla protezione di gruppi bancari, industriali e politici, inevitabilmente le caratteristiche del suo sistema sono sempre state la difficile concorrenza, la mancanza di regole di controllo, lo sviluppo massiccio di cartelli e monopoli. Esclusivamente un’azione di netta discontinuità con la politica delle partecipazioni statali e del protezionismo doganale può, secondo Rossi, riformare e restituire trasparenza all’intero sistema. Dunque applicare il settimo comandamento: non rubare. Questa è l’esortazione che Rossi rivolge al presidente di Confindustria Costa e agli imprenditori italiani. « Ma io non mi sono mai preoccupato che gli industriali guadagnassero troppo; mi sono preoccupato che rubassero troppo; e, mettendo in luce questa consuetudine di alcuni di loro, ho sempre creduto di scrivere in difesa del bene comune». Gli strali lanciati da Rossi contro la corruzione del sistema capitalista sono indirizzati non alla pretesa di aumento del profitto degli industriali, quanto piuttosto alle licenze, alle concessioni esclusive, ai favoritismi messi in atto dall’imprenditoria nel finanziamento dei giornali, dei partiti politici, delle campagne elettorali, consentendo a uomini di loro fiducia d'inserirsi nei gangli vitali delle istituzioni. Per poter cogliere l'autentico contributo politico-culturale fornito da Ernesto Rossi attraverso le sue riflessioni sulla situazione economica italiana, non è necessario interrogarsi se vi fu da parte sua una netta scelta di campo tra socialismo e liberalismo, bisogna piuttosto individuare il bersaglio polemico delle sue critiche: da un lato il regime individualistico che garantisce la proprietà privata su gran parte degli strumenti materiali di produzione, incurante della miseria diffusa in larghi strati della popolazione; dall'altro lato le sue critiche si rivolgono al monopolio statale di tutti i mezzi di produzione, alla burocratizzazione di tutta la vita economica.

Dunque, secondo Rossi, la molla propulsiva dell'economia deve essere rintracciata in un dinamismo economico che permetta di aumentare i mezzi materiali per la soddisfazione dei bisogni umani. Come afferma in Abolire la miseria: « L'eroe di questa grandiosa rivoluzione economica non è il "fedele servitore dello stato" mosso dal senso del dovere. È l'imprenditore, che non ha lo stipendio sicuro alla fine del mese, comunque vadano le cose; [...] è l'imprenditore, che costruisce la sua baracca sempre più avanti, se scopre la possibilità di un nuovo guadagno, dove neppure arriva la tutela della legge». Questo eroe è, dunque, colui che ha avuto l'audacia di avventurarsi in territori ancora inesplorati dai monopoli e che ha segnato le prime tracce di un cammino che ha poi permesso a tutta l'umanità di procedere sicura.
 
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