Nenni e gli altri l'importanza di essere stati in esilio

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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 25/10/2007, 20:32




Ringrazio Stefano(ovvero il colonnello o'malley) per avermi indicato puntualmente questo articolo.

Nenni e gli altri
l'importanza di essere stati in esilio


GIOVANNI DE LUNA
Riflettendo sulla classe politica di oggi c’è ampio spazio per una litania colma di rimpianti: vuoi mettere Togliatti con Fassino, De Gasperi con Casini, per non parlare di La Malfa, Einaudi, Nenni, Lombardi ecc. Non c’è dubbio: i padri fondatori della Repubblica furono ampiamente all’altezza del loro compito. Vuol dire che erano «antropologicamente» migliori dei politici di oggi? O c’entra il fatto che a «selezionarli» furono anni di esilio, carcere, cospirazione, lotta antifascista?

Pensiamo proprio all’esilio su cui si sono soffermate le giornate torinesi dedicate ai grandi antifascisti (Gramsci, Salvemini, Gobetti; oggi, al Circolo dei Lettori di via Bogino 9, i fratelli Rosselli), con un complesso di iniziative racchiuse in un titolo suggestivo ed efficace: «Quando la libertà è altrove». Fra gli esiliati troviamo Nenni e Saragat alla testa del Partito socialista, Togliatti e Longo del Pci, Facchinetti e Pacciardi del Pri, Lussu con Tarchiani, Cianca e Trentin del PdA, senza dimenticare Nitti, Don Sturzo e Carlo Sforza. Ma perché l’esilio fu decisivo nel permettere a quegli uomini di presentarsi preparati all’appuntamento con la storia?

Pensiamo al confronto tra la Francia cosmopolita e brillante in cui gran parte trovò rifugio (furono 28 mila i fuoriusciti schedati in Francia dalla polizia italiana) e l'Italia fascista. Qui, per la generazione nata tra il 1910 e il 1920, esistevano solo i vincoli di una rigida gabbia corporativa che eliminava la libera circolazione delle idee, il confronto tra diverse posizioni culturali e politiche, stroncando sotto il peso di strutture elefantiache ogni progetto di rinnovamento. Lo staracismo, il caporalismo dei Guf, furono letali, spensero ogni capacità di iniziativa e, dimenticata la mobilitazione degli esordi, gerarchi e semplici gregari si adagiarono nella ripetitività di una stanca routine. Guardiamo invece alla Parigi degli esuli. Aldo Garosci vi arrivò da Torino agli inizi del 1932; incontrò Carlo Levi e i due amici respirarono quasi con voluttà l’atmosfera culturale della capitale, tuffandosi golosi in un circuito che si snodava tra i film della grande epoca rivoluzionaria russa, l’arte, i musei orientali, i parchi, il teatro di Brecht.

Altro che l’angustia dei riferimenti culturali dei giovani fascisti chiusi nella cappa plumbea del provincialismo e dell’autarchia. Gli «esiliati» discutevano, si interrogavano in un momento di crisi profonda sia del socialismo sia del liberalismo, quasi di un loro progressivo logoramento confermato dalla comune sconfitta di fronte al nazismo e al fascismo. Dai nuclei centrali di entrambi si staccarono schegge di riflessioni e di ripensamenti che confluirono in un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni, progetti, sforzi ostinati di trovare «vie nuove». Per tutti fu una straordinaria scuola di formazione politica.
 
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