Economia Partecipativa

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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 3/11/2007, 18:14




http://www.zmag.org/Italy/albert-wsf3.htm

L'economia partecipativa
Presentazione al ciclo di seminari "Vita dopo il capitalismo", Porto Alegre 2003

Michael Albert(1)



.Parte Prima



Prima di tutto, come tutti voi detesto il capitalismo. Non voglio un sistema economico in cui Bill Gates abbia la stessa ricchezza dell'intera Norvegia. In cui i senzatetto dormano sotto i ponti e gli amministratori delegati vivano in dimore lussuose. Non voglio che le persone si derubino a vicenda, ignorando il benessere sociale, facendosi concorrenza per poche briciole. Non voglio una corsa al successo in cui la maggior parte della gente perda ed i più forti e spietati siano i vincitori. Non voglio la dittatura aziendale in cui la maggior parte delle persone non ha dignità, influenza, potere e in alcuni casi neppure cibo. Non voglio i mercati o la pianificazione centralizzata. Non voglio la schiavitù del salario, divisioni di classe e dominio di classe.


Non voglio un sistema economico che produce persone come Bush e Rumsfeld; persone con un potere smisurato che credono che gli afgani siano sacrificabili, che gli iracheni siano sacrificabili, che i palestinesi siano sacrificabili, che i coreani siano sacrificabili, che i venezuelani, gli argentini o i brasiliani siano sacrificabili, che gli abitanti del Bronx o di Watts o in realtà chiunque non appartenga alla classe dominante o al gruppo d'interesse dei Bush e dei Rumsfeld sia sacrificabile. Ciò che è sacrificabile è il capitalismo. E siamo noi, con altri milioni di persone, che dobbiamo rimuoverlo dalla storia.

Ma, se non vogliamo il capitalismo, con cosa vogliamo sostituirlo? Se crediamo che un altro mondo è possibile, che un mondo migliore è possibile, quali sono alcune delle sue caratteristiche?

Anziché lasciare che alcune persone pasteggino a caviale e viaggino sui loro jet privati ed altre si nutrano dalla spazzatura e vivano sotto i ponti, vogliamo un'equa distribuzione delle risorse e delle circostanze individuali.

Invece delle gerarchie di potere, in cui i proprietari sono in grado di far spostare enormi industrie lasciando intere regioni e popolazioni nella miseria; in cui manager e colletti bianchi possono persino controllare quando i lavoratori vanno al bagno e plasmare le nostre vite; in cui l'80% della popolazione - la classe lavoratrice - non ha praticamente alcuna influenza sulle proprie condizioni economiche, né sul tipo né sulla quantità di lavoro, né sul prodotto del lavoro né su quando si lavora; invece di tutto questo, vogliamo una società senza classi e meccanismi decisionali autogestiti. Vogliamo che le persone influiscano sulle decisioni nella misura in cui ne sono influenzate.

Anziché un sistema allocativo concorrenziale o autoritario, che espanda i profitti e il potere delle classi dominanti, vogliamo un sistema allocativo autogestito e cooperativo, che promuova il benessere sociale, lo sviluppo e la giustizia.

L'economia partecipativa è un'alternativa economica al capitalismo, ma anche a ciò che in Russia, Cina e in altri paesi è stato opportunisticamente chiamato socialismo.

L'economia partecipativa rigetta l'affermazione grottesca di Margaret Thatcher secondo cui: "Non esistono alternative". La Thatcher voleva farci credere che la sofferenza, la povertà e le deprivazioni siano inevitabili come la forza di gravità, che siano un fatto della vita. Ma questa è una menzogna.

L'alternativa economica chiamata economia partecipativa, o parecon in breve, è costruita attorno a quattro valori chiave, e ricorre a quattro istituzioni fondamentali per soddisfare questi valori.

Il primo valore è la Solidarietà. I sistemi economici influiscono sul modo i cui le persone interagiscono, sugli atteggiamenti che le persone hanno le une nei confronti delle altre.

Il capitalismo è un gioco a somma zero in cui l'unico modo per farsi strada è calpestare gli altri. Bisogna ignorare le sofferenze di coloro che rimangono indietro, oppure letteralmente calpesarli, spingendoli ancora più in basso. Nel capitalismo, diceva un famoso manager di una squadra di baseball chiamata Yankees, "i buoni finiscono ultimi"; il che è in realtà una critica terribile degli scambi di mercato. La mia versione dello stesso pensiero è che "la spazzatura si accumula". Ne sono testimoni, ancora una volta, i nostri leader esaltati.

L'economia partecipativa, o parecon, è invece intrinsecamente un'economia della solidarietà. Le sue istituzioni di produzione, consumo e allocazione non distruggono né ostacolano la reciprocità e la simpatia, spingendo invece anche le persone antisociali a tener conto del benessere altrui. In una parecon, per farti strada, sei indotto a comportarti in maniera solidale.

E questo primo valore di parecon è del tutto incontroverso. Solo uno psicopatico sosterrebbe che, a parità di condizioni, un sistema economico è migliore se produce ostilità e antisocialità. Chiunque abbia un minimo di buon senso sarà d'accordo che, a parità di condizioni, un sistema economico è migliore se produce solidarietà. Abbiamo quindi il nostro primo valore: la solidarietà.

(1): Michael Albert (1947), una delle voci più autorevoli della sinistra radicale americana e del movimento no-global, è co-fondatore della casa editrice South End Press e della rivista online “Z Magazine”.
 
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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 3/11/2007, 20:03




.Parte Seconda

Il secondo valore che un sistema economico ideale dovrebbe promuovere è la diversità. Il sistema economico influisce sulla gamma di opzioni a disposizione delle persone nel lavoro e nel consumo.

I mercati capitalistici omogeneizzano le scelte. Strombazzano le opportunità ma in realtà sbarrano molti percorsi di soddisfazione e di sviluppo sostituendo tutto quello che c'è di umano e occupandosi solo di ciò che è più commerciale, più profittevole, e particolarmente coerente con il mantenimento del potere autoritario e della ricchezza.

Ma un'economia partecipativa è un'economia della diversità. Le istituzioni pareconiane di produzione, consumo e allocazione non solo non soffocano la varietà, enfatizzano la ricerca e il rispetto di diversi canali e soluzioni ai problemi. parecon riconosce che siamo esseri finiti che possono trarre giovamento da ciò gli altri fanno e che noi non abbiamo tempo di fare; e anche che siamo esseri fallibili che non dovrebbero investire tutte le loro speranze in un unico canale di progresso, ma che dovrebbero proteggersi contro eventuali insuccessi cercando di preservare ed esplorare diversi percorsi e opzioni.

E anche questo valore è totalmente incontroverso. Solo un individuo incredibilmente perverso sosterrebbe che a parità di condizioni, un sistema economico è migliore se riduce le opzioni disponibili. Invece, tutti sono d'accordo che, a parità di condizioni, un sistema economico è migliore se stimola e protegge la diversità. Abbiamo quindi il nostro secondo valore: la diversità.

Vogliamo anche che un buon sistema economico promuova un terzo valore: l'equità. I sistemi economici influiscono sulla distribuzione del prodotto tra gli attori economici. Determinano il nostro budget o la nostra porzione del prodotto sociale.

Il capitalismo remunera in modo preponderante la proprietà e il potere negoziale. Dice che i titolari della proprietà produttiva, in virtù di questa titolarità e nient'altro, meritano profitti. E dice che coloro che hanno un grande potere negoziale basato su un monopolio di saperi e abilità, sulla disponibilità di strumenti migliori o vantaggi organizzativi, sul fatto di essere nati con talenti particolari, o sull'esercizio della forza bruta, hanno diritto a tutto quello di cui riescono ad appropriarsi. Il capitalismo, in questo senso, fa propria le moralità di Al Capone e della Harvard Business School - che sono, salvo dettagli, praticamente identiche. Hai quello che ti prendi - agli altri, quel che resta oppure niente.

Ma un'economia partecipativa è un'economia dell'equità, dal momento che le istituzioni di produzione, consumo e allocazione, in una parecon, non solo non distruggono o ostacolano l'equità, la promuovono. Ma a questo punto sorge una complicazione: che cosa intendiamo per equità? E questo è un punto controverso.

Parecon naturalmente rifiuta la remunerazione della proprietà privata. E naturalmente rifiuta di remunerare il potere. Ma che dire del prodotto? Le persone dovrebbero essere remunerate per il volume e il valore del loro prodotto? Dovremmo ottenere una porzione del prodotto sociale pari a quanto abbiamo prodotto? Ciò sembra equo, ma... lo è davvero?

Supponendo che due persone facciano lo stesso lavoro per la stessa durata di tempo e con la stessa intensità, perché qualcuno che ha strumenti di lavoro migliori dovrebbe ottenere un reddito superiore rispetto a un altro che ha strumenti di lavoro peggiori? Perché qualcuno che per caso produce un prodotto di maggior valore dovrebbe essere remunerato di più di un altro che produce un prodotto di minor valore, ma socialmente desiderato, se i due lavorano lo stesso numero di ore e con la stessa intensità, svolgendo mansioni paragonabili dal punto di vista degli effetti sulla qualità della vita? Perché qualcuno che è stato fortunato alla lotteria genetica, che è nato più alto, più robusto, con riflessi migliori, con un talento innato per la musica, ecc., dovrebbe essere remunerato di più di un altro che è stato geneticamente meno fortunato, assumendo ancora una volta che entrambi lavorino nei rispettivi campi con la stessa intensità e con lo stesso grado di impegno e di fastidio?

In un'economia partecipativa, per coloro che possono lavorare, la remunerazione è basata sull'impegno e sul sacrificio.

Se due persone vanno nei campi per il raccolto e una di loro è molto più forte, o ha strumenti migliori, ed entrambe lavorano lo stesso numero di ore, con lo stesso fastidio e sotto lo stesso sole.... allora anche se quella con strumenti migliori alla fine della giornata ha conseguito un raccolto maggiore, in una parecon entrambe ricevono la stessa remunerazione per lo stesso impegno e sacrificio.

Se un grande compositore produce un capolavoro e un buon compositore produce solo un'opera accettabile, ed entrambi lavorano per lo stesso numero di ore e nelle stesse condizioni, allora in una parecon ottengono la stessa remunerazione, sebbene i loro prodotti siano notevolmente differenti.

Se lavori più a lungo, vieni remunerato di più. Se lavori più duramente, vieni remunerato di più. Se lavori in condizioni peggiori e svolgi mansioni più onerose, vieni remunerato di più.

Ma non vieni remunerato di più - una paga più alta - per il fatto di avere strumenti di lavoro migliori, o di produrre qualcosa che viene valutata di più, o persino di avere talenti innati molto produttivi. E per quanto riguarda le abilità acquisite, le persone vengono remunerate per il lavoro necessario ad apprenderle, per lo sforzo e il sacrificio sostenuto, e non per l'output che da queste deriva.

Remunerare solo l'impegno e il sacrificio che le persone sostengono nel loro lavoro è controverso. Alcuni anticapitalisti credono che le persone dovrebbero essere remunerate in base al prodotto del loro lavoro; quindi un grande atleta dovrebbe guadagnare una fortuna, e un dottore che lavora comodamente dovrebbe guadagnare molto di più di un contadino o di un cuoco di un fast food. Parecon rigetta questo criterio. Anzi, in una parecon, se una persona avesse un lavoro molto produttivo, comodo, divertente, piacevole, e un'altra persona avesse un lavoro oneroso, debilitante e meno produttivo ma di valore sociale, sarebbe quest'ultima a guadagnare di più, non la prima.

Così, abbiamo il nostro terzo, controverso valore. Vogliamo che un buon sistema economico remuneri l'impegno e il sacrificio e che, naturalmente, quando le persone non possono lavorare, venga garantito loro comunque un reddito come alle altre. Non siamo sicuri di poter realizzare tutto questo senza conseguenze dure e controproducenti, ma se possiamo realizzare questo tipo di equità, allora sicuramente dovremmo volerlo fare.
 
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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 4/11/2007, 14:51




.Parte Terza

Il quarto e ultimo valore su cui è fondata la parecon ha a che fare con le decisioni, e si chiama autogestione. Un modello economico incide su quanto peso decisionale ha ciascun attore riguardo a produzione, consumo e distribuzione.

Nel capitalismo, i proprietari, o capitalisti, hanno un'enorme peso. I manager e i lavoratori di concetto di alto livello, che monopolizzano le leve dei meccanismi decisionali quotidiani, come avvocati, ingegneri, operatori finanziari, e dottori, hanno un peso piuttosto sostanziale. E alcune persone hanno un peso virtualmente pari a zero. In realtà, le persone che svolgono compiti ripetitivi e di mera esecuzione, addirittura sanno raramente quali decisioni vengono prese, figuriamoci se riescono ad influenzarle.

Nelle aziende capitaliste c'è una gerarchia di potere che supera persino quella delle dittature. Stalin stesso non si è mai sognato di pretendere che la popolazione russa dovesse chiedere il permesso per andare in bagno... una condizione che si verifica molto spesso per i lavoratori nelle aziende.

Ma un'economia partecipativa è un'economia democratica. Le persone controllano la propria vita nella misura opportuna. Ogni persona ha un peso decisionale, e questo non lede il diritto di altre persone di avere lo stesso peso decisionale. Influiamo sulle decisioni in modo proporzionale a quanto ne siamo coinvolti. Questo si chiama autogestione.

Immaginate un lavoratore in una grande équipe di lavoro. Vuole mettere una foto della figlia sulla sua scrivania. Chi dovrebbe prendere questa decisione? Dovrebbe essere un qualche proprietario a decidere? Dovrebbe essere un manager? Dovrebbero deciderlo tutti i lavoratori? Ovviamente, niente di tutto questo è sensato. Il singolo lavoratore con il figlio dovrebbe decidere, da solo, con piena autorità. Dovrebbe essere letteralmente sovrano in questo particolare caso.

Ora supponiamo che lo stesso lavoratore voglia mettere una radio sulla sua scrivania, e tenerla accesa a volume molto alto, ascoltando rock and roll sguaiato, o persino heavy metal. Adesso chi dovrebbe decidere? Noi tutti intuitivamente sappiamo che quelli che sentiranno la radio dovrebbero avere voce in capitolo. E che quelli che ne saranno più infastiditi, o a cui piacerà di più, dovrebbero avere ancor più voce in capitolo.

E a questo punto, abbiamo già trovato un valore per quanto riguarda i processi decisionali. Non abbiamo bisogno di un dottore in filosofia. Non abbiamo bisogno di linguaggio incomprensibile. Semplicemente ci rendiamo conto che non vogliamo che valga sempre il criterio di un voto a testa e decisioni a maggioranza. E neppure vogliamo sempre che per raggiungere un accordo sia necessario il criterio di un voto a testa e una maggioranza qualificata. Né vogliamo che una persona decida in modo autoritario, come un dittatore. Né vogliamo il consenso su tutto. Né vogliamo sempre un qualsiasi altro singolo approccio. Tutti questi metodi decisionali hanno senso in qualche caso, ma sono orribili in altri.

Quello che speriamo di ottenere quando scegliamo un metodo decisionale, e anche i relativi metodi di discussione, di stesura di un programma, e così via, è che ciascun attore abbia influenza sulle decisioni in proporzione al grado per cui ne è coinvolto.

La logica in realtà è piuttosto semplice. Se non abbiamo tutti voce in capitolo nelle decisioni in proporzione a quanto ne siamo coinvolti, allora alcune persone avranno più voce rispetto al loro coinvolgimento, mentre altre ne avranno di meno, ma non c'è nessuna base morale per cui debba esistere un tale scarto, e neppure un argomento sulla base del quale raggiungere la decisione migliore. La competenza è certamente essenziale per arrivare a buone decisioni - e cioè per generare e fornire informazioni utili alle decisioni. E la competenza gioca certo un ruolo nel momento in cui effettivamente esprimiamo le nostre preferenze, perché in realtà, ciascuno di noi è il massimo esperto per quanto riguarda le sue preferenze, e ciascuno di noi è responsabile di esprimerle. E quindi abbiamo il nostro quarto valore: l'autogestione.

C'è un altro valore cui vorrei accennare - anche se certamente più generale, e per la verità, quasi scontato.

In un'economia partecipativa vogliamo essere efficienti.

Questa parola vi fa venire un po' di nausea? A me si. Ma dobbiamo vincerla, perché ciò che significa realmente efficienza è cercare di conseguire i nostri obiettivi, e farlo senza sprecare ciò a cui teniamo. Dovremmo quindi essere tutti favorevoli all'efficienza. L'alternativa al favorire l'efficienza è non conseguire i nostri scopi, oppure preferire lo spreco delle cose a cui teniamo.

Quindi perché questa parola ci fa venire un po' di nausea? Nel capitalismo le preferenze dei proprietari diventano gli obiettivi, e ciò che sta a cuore ai proprietari non viene sprecato. Quindi nel capitalismo efficienza significa cercare il massimo profitto, riproducendo le condizioni per il conseguimento del profitto, senza perdere risorse che i proprietari possono sfruttare. Ai capitalisti non importa distruggere esseri umani con le malattie polmonari dei minatori, o sterminare esseri umani con le armi o con la fame, quando la gente colpita è sacrificabile dal punto di vista del profitto. Ai capitalisti non importa far ammalare la gente a causa dell'inquinamento nei luoghi di lavoro. Non gli importa di azzerare o distruggere le risorse che loro stessi non possono sfruttare, anche se altri potrebbero avere danni dalla perdita. Sotto il capitalismo essere efficienti significa essere meschini, perché è un sistema meschino - e questo è il motivo per cui proviamo qualche antipatia per la parola efficienza, per come è usata intorno a noi.

Ma in una parecon essere efficienti significa produrre, consumare, e distribuire i beni per incontrare i bisogni e sviluppare potenzialità consistenti con l'espansione della solidarietà, dell'equità, della diversità e dell'autogestione. E questo significa non sprecare nulla da cui possiamo trarre godimento e beneficio. Quindi una parecon dovrebbe essere efficiente, ovviamente, in questa precisa accezione.
 
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SocialEma
view post Posted on 4/11/2007, 16:18




bello...ma è attuabile secondo te? a me sembra piu che altro un sogno...un utopia... e sarebbe produttivo?
 
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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 4/11/2007, 16:37




l'unico modo per vedere se funziona un sistema del genere è applicarlo...
Magari a livello di piccole comunità sarebbe attuabile, come primo passo.

Comunque questo documento non è ancora finito, forse siamo arrivati appena a metà...
 
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tosco90
view post Posted on 5/11/2007, 16:14




Mi ricorda tanto i quattro pilastri del socialismo che ho letto su un quotidiano, che poi riporterò.
Comqunue, sarei d'accordo col provare ad applicarlo a piccole comunità, una regione ad esempio. Peccato che è politicamente scorretta, una decisione del genere.
 
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Chaos Phoenix
view post Posted on 7/11/2007, 21:18




Interessante,molto interessante.
Bisognerebbe davvero tentare di attuarlo.
 
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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 1/2/2008, 10:27




L’ALTRA AMERICA: MICHAEL ALBERT E L'ECONOMIA PARTECIPATIVA

di Loredana Galassini

A Michael Albert, attivissimo economista statunitense, tra i fondatori della South End Press e di Z Magazine, ma anche responsabile di Znet, piacciono molto gli incontri piccoli ma concreti perché il suo tentativo di rimpiazzare in economia la competizione egoistica con la cooperazione equa, significa cercare di costruire un nuovo vocabolario ed una nuova lingua. Assieme a Robin Hahnel , docente di economia all’università di Washington, ha sviluppato e divulgato un radicale modello economico, il Partecipatory Economics (Economia Partecipativa), alternativo sia al capitalismo che al quello che è stato il socialismo reale di stampo sovietico. La solidarietà prende il posto della concorrenza perché competere comporta decisioni drastiche che incidono sulla qualità della vita e l’equità diventa un valore che sostituisce il principio di delega nei processi decisionali e partecipativi.
Per realizzare il suo progetto di cambiamento radicale di un sistema produttivo che educa all’economia dell’inefficienza, Michael Albert punta su due soggetti sociali ben precisi: lavoratori e consumatori che, attraverso consigli, funzionano secondo il principio dell’autogestione partecipativa. Scrivono Albert e Hahnel: “Finora, la maggior parte degli economisti di professione sono stati d’accordo sul fatto che sia la natura umana sia la tecnologia contemporanea vietino a priori delle alternative egualitarie e partecipative. Essi hanno generalmente sostenuto che una produzione efficiente deve essere gerarchica, che solo un consumo ineguale può fondare una motivazione efficiente e che l’allocazione può essere realizzata solo dal mercato o dalla pianificazione centralizzata, e mai da procedure partecipative... L’Ecopar (Economia Partecipativa) è uno sforzo sostenuto per dimostrare che tali affermazioni sono concretamente contestabili e moralmente inaccettabili.”
L’attuale suddivisione del lavoro è basata sul potere di un 20% che ha il controllo intellettuale e di un 80% esecutivo. Complessi bilanciati di mansioni, invece, porterebbero ad una diversa distribuizione, a soluzioni diverse, perché è la divisione del lavoro che fa scaturire la divisione di classe. Cosa significa nella pratica? Che, in un ipotetico centro di produzione, ciascuno avrebbe la possibilità di fare tutto un po’ e parteciperebbe al processo decisionale. E la remunerazione? “Adesso – dice Michael Albert – è legata al potere ed è errata da un punto di vista morale ed economico. Morale perché, se prendiamo due persone che raccolgono mele e sono diverse fisicamente, non possiamo premiare quello che ha più muscoli e fa meno sforzi per produrre di più, perché significherebbe premiare la lotteria genetica che lo ha favorito. Economica, perché partendo da un’equità remunerativa, si può arrivare ad una migliore efficienza con incentivi che aumentino la qualità e gratifichino la quantità di tempo che il lavoratore decide di impiegare nel suo lavoro. E’ la politica che toglie la partecipazione con l’economia, perché non esiste un mercato che supera gli altri, ma principi. Efficienza è riuscire ad ottenere senza sprechi, ma dipende dal concetto di valore: cosa è meglio il petrolio o la creatività?
Noi cerchiamo di definire un’economia che distribuisca obblighi e benefici del lavoro sociale; che assicuri il coinvolgimento dei membri nelle decisioni, in proporzione degli effetti che queste hanno su di loro; che sviluppi il potenziale umano in vista della creatività, della cooperazione e dell’empatia e che utilizzi in modo efficiente le risorse umane e naturali nel mondo che abitiamo. Un mondo ecologico in cui s’incrociano reti complesse di effetti privati e pubblici. In una parola: noi auspichiamo un’economia equa ed efficiente che promuova l’autogestione, la solidarietà e la diversità. In definitiva, l’Ecopar propone un modello economico da cui sono banditi tanto il mercato quanto la pianificazione centralizzata (in quanto istituzioni che regolano l’allocazione, la produzione e il consumo), ma anche la gerarchia del lavoro e il profitto. In una simile economia, consigli di consumatori e di produttori coordinano le proprie attività all’interno di istituzioni che promuovano l’incarnazione e il rispetto dei valori preconizzati. Per arrivarci, l’Ecopar si basa anche sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione e su una procedura di pianificazione decentrata, democratica e partecipativa, attraverso la quale produttori e consumatori fanno proposte di attività e le rivedono fino alla determinazione di un piano che viene dmostrato essere al tempo stesso equo ed efficiente.”
Diverso dal Bilancio Partecipativo di Porto Alegre, l’Ecopar guarda molto agli Usa e ai cosiddetti paesi industrialmente avanzati per proporre uno sforzo sostenibile di economia partecipativa che vuole essere intellettualmente credibile e praticamente percorribile, senza cadere in nessuna delle trappole in cui troppe volte si è visto cadere il pensiero della sinistra. Dice ancora Michael Albert: “Sul piano economico, a sinistra, si arrivano a dire cose come questa: la gente, nella mia società, consuma veramente troppo, ed è orribile per questa o quella ragione; bisogna quindi abolire il consumo. Oppure: la gente della mia società lavora, bisogna abolire il lavoro. Invece di riconoscere che c’è un certo numero di funzioni che una società deve compiere. Il problema allora è sapere come farlo rispettando certi valori desiderabili. Molti ecologisti dicono: la General Motors è grande, quindi tutto ciò che è grande è negativo. Bisogna pensare in piccolo. Ma questa non è un’analisi: è una reazione. E’ falso, anche da un punto di vista ecologico. La gente sente queste cose e se la ride. Con ragione. Avere degli obiettivi può aiutarci a riconoscere l’ingiustizia attuale, ma le tattiche che impieghiamo possono cercare di ridurre le sofferenze attuali e farci avvicinare a obiettivi futuri di lungo termine. Si può uscire dalla rassegnazione e anche il movimento può smettere di essere negativo, perché non ci si arresta con le riforme, ma si inizia con le riforme.”
 
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