La Crisi Italiana, di Paolo Sylos Labini

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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 14/3/2008, 11:32




Interessante saggio dell'economista Paolo Sylos Labini, datato 1995 ma molto attuale. Si ringrazia Liber Liber per la sua pubblicazione on-line.

In questi anni, la sinistra ha scoperto di essere sola: distante dalla sua base tradizionale, che pure la condiziona e la frena (e magari la abbandona al momento del voto), appannata nelle sue capacità propositive, largamente priva di quel potere di aggregazione del consenso e di quell'egemonia intellettuale di cui aveva goduto per decenni. "What is left?" si chiedeva un paio d'anni fa un convegno della sinistra europea, giocando sul doppio significato di quest'espressione che indica a un tempo "Che cos'è la sinistra?" e "Che cosa è rimasto?". Se è difficile formulare un interrogativo più appropriato, è pressoché impossibile trovare, in qualsiasi parte del mondo, una risposta adeguata.
Non si esce da questa crisi con qualche artificio elettorale oppure inventando, per dir così, un candidato 'deus ex machina', per quanto degno, da opporre a Berlusconi. Occorre invece una sorta di purificatrice "discesa agli Inferi", come quella cui erano chiamati gli eroi omerici e virgiliani prima di compiere grandi imprese, una rivisitazione delle radici. È indispensabile prendere le proprie misure di fronte a un mondo che cambia.
Per la sinistra, un simile, dolorosissimo processo di riscoperta implica fare i conti con Marx, un tempo divinizzato, oggi quasi dimenticato. Paolo Sylos Labini, uno tra i maggiori economisti italiani, non marxista ma un tempo "ben disposto" verso Marx, appartiene all'esiguo novero di coloro che hanno avuto il coraggio di affrontare una simile, difficile avventura. Sylos Labini, infatti, è stato uno dei pochissimi allievi italiani di Joseph Schumpeter. Grazie anche a questa esperienza, il suo liberalsocialismo, che per altri versi si rifà soprattutto a Salvemini, si connota per la rara padronanza di strumenti concettuali tipici sia della sponda marxiana sia di quella liberista del profondo fossato ideologico che ha solcato, fino a sfigurarlo, il nostro panorama intellettuale.
Sylos Labini collega esplicitamente la rivisitazione critica delle posizioni della sinistra alla possibilità di soluzioni della crisi italiana, di cui la crisi della sinistra è 'magna pars'. A quest'analisi e ad alcune vie per la soluzione è dedicato un suo breve ma densissimo saggio dal titolo "La crisi italiana", pubblicato da Laterza nella collana "Il nocciolo".
I conti di Sylos Labini con Marx sono iniziati con un noto articolo su "Il Ponte" del 1991 che ha innescato una vivacissima polemica. Sylos Labini non demonizza Marx e gli riconosce la paternità di "tesi analiticamente feconde" che riguardano soprattutto i metodi di analisi basati sull'esistenza di classi sociali, sulla ciclicità del capitalismo e l'importanza delle innovazioni. Lo attacca duramente, però, da una direzione insolita, ben diversa e ben più efficace di quelle tradizionali: lo chiama in causa per l'uso strumentale della morale, che emerge dalle lettere più confidenziali e riservate del filosofo tedesco, per il suo sfacciato invito ai comunisti a essere disonesti, per l'esplicita raccomandazione - accolta fin troppo alla lettera dai rivoluzionari bolscevichi - a non avere pietà dei vinti.
È comprensibile, su questa base, la reazione terrorizzata delle borghesie che condusse al fascismo e che ancor oggi influenza i comportamenti elettorali; essa è da attribuirsi, almeno parzialmente, al marxismo, nei confronti del quale il Pds non ha operato un taglio netto, a differenza dei socialdemocratici di tutta Europa.
Solo l'opera di "purificazione" legittimerà la sinistra a fare proposte credibili per il futuro e per questo futuro, i conti con Marx sono un preliminare necessario per affrontare i conti dello stato. Di fronte alla gravità della crisi finanziaria, individuata come banco di prova su cui si deve misurare chiunque intenda proporre seriamente un progetto politico, non si può non ammettere l'insostenibilità della spesa sociale ai suoi livelli e nelle sue forme attuali.
La via d'uscita abbozzata da Sylos Labini mira a rendere più vigoroso lo stato sociale, soprattutto per i meno abbienti, ma al tempo stesso dovrebbe comportare minori spese e instaurare un circolo virtuoso che colleghi occupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca. Questa proposta è molto originale e merita una considerazione molto attenta; per una politica dell'occupazione, Sylos Labini assegna un ruolo secondario alla riduzione di orario e ai lavori di interesse sociale, prediletti da una parte della sinistra, e punta decisamente in una direzione insolita verso la quale la sinistra ha spesso manifestato una grande diffidenza: la creazione di nuove imprese, soprattutto piccole, in grado, con le nuove tecnologie elettroniche; di fornire una produzione efficiente.
L'azione pubblica per conseguenza muta: si fa suscitatrice di occasioni di sviluppo, crea economie esterne, consente l'aumento dell'istruzione dei lavoratori, stimola la ricerca, sostiene condizioni tollerabili di vita civile, a cominciare dall'Italia del Sud. Nel lungo cammino che la sinistra dovrà fare nei prossimi anni, questo è un ottimo punto di partenza.

Recensione di M. Deaglio, L'Indice 1995, n. 4.




1.

Le origini della crisi


Quella che stiamo vivendo è una crisi grave e sconcertante. Molti pensavano che l'Italia stava uscendo da un periodo oscuro, dominato da numerosi sintomi di degenerazione, fra cui una dilagante corruzione, per entrare in tempi brevi in una fase di miglioramento politico e sociale. Finora di questo miglioramento non c'è alcuna indicazione, anzi, pare che sia in atto un grave peggioramento: aumenta giorno per giorno il numero di coloro che si vanno convincendo che siamo caduti dalla padella nella brace (con diversi elementi positivi a favore della padella).


Lo svolgimento ha preso avvio poco meno di tre anni fa dalle inchieste aperte da alcuni giudici di Milano sulle così dette tangenti - che sarebbe più corretto definire secanti, come mi faceva notare un amico matematico -; le inchieste, oramai passate alla storia col nome di Tangentopoli, sono tuttora in corso.


Per cercare di comprendere quel che sta accadendo in un modo non superficiale dobbiamo cercare di andare oltre gli eventi contingenti e di considerare la crisi in atto adottando una prospettiva più ampia. A questo scopo possiamo prendere le mosse dalla concezione di Adamo Smith, il quale, prima di essere un economista, era un filosofo.


Secondo Smith, per cercare di comprendere l'evoluzione di una determinata società conviene studiare tre aspetti: cultura, istituzioni ed economia. Interpretando Smith, possiamo dire che la cultura comprende l'istruzione, l'etica, le abitudini, le idee e le ideologie prevalenti nella società. Le istituzioni comprendono le forme organizzative e l'assetto giuridico della società sia nella sfera del diritto pubblico che in quella del diritto privato. L'economia in senso proprio comprende le risorse naturali e la posizione geografica e riguarda la produzione e il commercio dei beni e le relazioni che si stabiliscono fra gli uomini nelle attività produttive e commerciali. I tre aspetti vanno visti unitariamente; così, la crescita della produzione e degli scambi è fortemente condizionata, anche se non puntualmente determinata, dall'evoluzione della cultura e delle istituzioni.


In questo periodo in Italia stiamo vivendo una crisi multipla: ideologico-politica, istituzionale ed economica.


La crisi ideologico-politica


Durante il secolo che ora volge al termine l'intera umanità, in un modo o nell'altro, ha vissuto uno dei drammi più terribili della storia moderna. Al centro di questo dramma troviamo il marxismo, che ha contribuito alla nascita dell'Unione Sovietica e in certi paesi, per reazione, alla comparsa di regimi fascisti. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale l'Unione Sovietica, sulla base della dottrina dell'imperialismo di derivazione marxista, si è contrapposta a paesi retti da sistemi liberaldemocratici.


Il conflitto fra i paesi guida dei due blocchi, Usa e Urss, non era solo ideologico: era anche istituzionale ed economico. Ed è essenzialmente sul piano economico che si è concluso, nel modo che tutti conoscono: la data simbolica è quella in cui è stato abbattuto il muro di Berlino. Sebbene la Cina per ora non abbia cambiato il sistema politico, ha certamente cambiato il sistema economico, che non può essere più definito come un sistema a pianificazione centralizzata. I mutamenti che stanno avendo luogo nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino sono enormi. Il conflitto aveva condotto l'umanità assai vicino all'olocausto nucleare ed aveva dato origine a una divisione in due grandi zone d'influenza di tutti i continenti, eccettuata l'Oceania.


I confini di queste due zone non sono rimasti stabili nel tempo; tutt'altro. Fra i cambiamenti più significativi, attuati o tentati, ricordo quelli avvenuti in Arabia (Yemen del Sud), in Africa (Mozambico e Angola), nell'America centrale e meridionale (Cuba, Nicaragua, Cile). In tutti i paesi appena nominati larghe parti delle popolazioni hanno spinto o favorito i cambiamenti che portavano verso la sfera d'influenza sovietica. Era la speranza di cospicui miglioramenti economici che spingeva in tale direzione quelle persone, che di norma facevano parte dei "dannati della terra". Ma i cambiamenti hanno gravemente deluso le aspettative: venuta meno la tutela sovietica le popolazioni di quei paesi si sono trovate, se possibile, perfino peggio di prima. Per l'America latina non pochi intellettuali di sinistra sostenevano che gli interventi che il governo degli Stati Uniti attuava per contrastare o impedire l'avvento al potere di partiti filocomunisti andavano attribuiti ai disegni reazionari e antipopolari di quel governo. Nella realtà gli interventi, non di rado durissimi, erano dovuti alla preoccupazione - se si vuole, all'angoscia - che l'avvento al potere di partiti filocomunisti potesse aprire la porta all'influenza o addirittura al controllo dell'Unione Sovietica, come del resto era accaduto a Cuba.


La verità è che la cosiddetta guerra fredda è stata combattuta senza esclusione di colpi. Ciascuno dei due contendenti usava anche l'arma dei finanziamenti dei partiti amici. Come di recente è risultato evidente, i finanziamenti erano clandestini; e ciò non poteva non alimentare pratiche di corruzione. Questo è accaduto in tutti o quasi tutti i paesi dell'Alleanza atlantica; ma è accaduto in forme particolarmente accentuate nei paesi, come l'Italia e la Grecia, in cui più forti erano i partiti collegati con l'Unione Sovietica. I comunisti dovevano restare fuori dal potere a tutti i costi, anche a costo - era questo il modo di vedere dei servizi segreti, impropriamente detti deviati, stranieri e italiani - di promuovere stragi e assassinii. (La degenerazione dei servizi segreti, per forza d'inerzia, è sopravvissuta alla spinta che l'aveva determinata.)


All'interno della politica italiana s'era creato un complesso politico-mafioso-terroristico: all'origine troviamo la strategia anticomunista, anche se in seguito le motivazioni si sono ampliate e complicate. Le azioni volte a scongiurare l'ingresso dei comunisti nell'area del potere si intensificarono quando sembrò profilarsi un'intesa tra i due nemici storici, Democrazia cristiana e Partito comunista. La corruzione alligna in tutti i paesi e in tutti i tempi; e l'Italia, per quel che è dato sapere, non ha mai fatto eccezione. Non c'è dubbio, però, che negli ultimi due decenni la corruzione in Italia ha avuto un'accelerazione impressionante. L'ipotesi più probabile è che l'avvio di tale processo abbia avuto una motivazione essenzialmente politica - i finanziamenti clandestini servivano soprattutto ai partiti dei due schieramenti -.Una volta avviato, tuttavia, il processo si è autoalimentato e quella motivazione politica ha perduto d'importanza, anche se è venuta meno solo dopo la caduta del muro di Berlino. Sono invece aumentate d'importanza, da un lato, l'esigenza di finanziare apparati di partito ormai pletorici e, dall'altro, la spinta verso l'arricchimento personale di un crescente numero di dirigenti politici e d'intermediari.


Diversi intellettuali ed alcuni uomini politici hanno riconosciuto la connessione fra azione anticomunista e corruzione; tuttavia, ben di rado hanno fatto riferimento all'altra linea, più feroce, della stessa azione: stragi, assassinii ed uso politico delle organizzazioni criminali, come la mafia. Qualcuno si è spinto fino al punto di giustificare una tale condotta, con l'argomento che una condotta pulita avrebbe consentito ai comunisti di prendere il potere. Una tale giustificazione non è ammissibile non solo e non tanto perché quel rischio in Italia non è mai stato veramente grande, quanto perché non possiamo, per amore della vita, perdere le ragioni di vivere - è la splendida regola etico-politica che Giovenale esprime nella sua ottava satira e che vale per tutti, anche per i più convinti anticomunisti.


Oggi diversi giudici stanno facendo esplodere una serie di scandali: stanno mettendo sotto i riflettori un gigantesco letamaio, nel quale si sono rotolati per anni, come se fosse un prato grazioso, molti uomini politici e molti uomini di affari. Occorre notare che quando, diversi anni fa, alcuni giudici hanno cercato di perseguire quegli uomini politici che si distinguevano nella corruzione e in altre attività criminose, sono stati rapidamente bloccati da quei personaggi, un tempo potenti; altri giudici hanno attuato una sorta di autocensura per il timore che il partito filosovietico menasse scandalo e in tal modo traesse vantaggio politico. I valori etici, si è detto, dormivano; si deve aggiungere che il sonno era profondo perché era stato somministrato un potente sonnifero. Il fatto che da un certo punto in poi, specialmente dopo che erano venuti meno i finanziamenti dell'Unione Sovietica, lo stesso Partito comunista sia entrato nel giro della corruzione - nel giro delle cosiddette tangenti - non è affatto in contrasto con la diagnosi ora abbozzata.


È bene che sia chiaro: non intendo attribuire l'estendersi della corruzione soltanto e neppure prevalentemente alla guerra fredda. Il Giappone, paese che non ha avuto nel suo interno un forte partito comunista, ma dove la corruzione è stata e a quanto pare è tuttora ampia, dimostra che una tale diagnosi sarebbe monca (l'unica analogia sta forse nel lungo predominio di un solo partito). Intendo tuttavia affermare che la guerra fredda ha contribuito ad aggravare in misura rilevante le spinte degenerative: a differenza del Giappone, la stessa assenza, per molti anni, del ricambio politico è imputabile alla guerra fredda. Sono poi da considerare la personalità, totalmente amorale, di certi uomini politici ed il consumismo, che ha favorito le tendenze e le tentazioni al rapido arricchimento.


Tare antiche e recenti della società italiana


Lo sviluppo del capitalismo in Italia è stato tardivo. I paesi ritardatari, nella fase iniziale, sono costretti a concentrare le loro risorse sulle grandi infrastrutture - che comprendono le ferrovie - e sulle industrie pesanti, come la siderurgia (la quale riceve un particolare impulso se il governo attribuisce un'elevata priorità agli armamenti). Ma infrastrutture e industria pesante in un paese ritardatario, per definizione economicamente molto arretrato, con pochi imprenditori moderni e con un mercato molto ristretto, esigono un robusto intervento pubblico. Di qui due caratteristiche del capitalismo italiano, come anche di quello di diversi altri paesi ritardatari. La prima consiste in una spaccatura fra poche grandi imprese moderne direttamente o indirettamente sostenute dallo Stato, e piccole imprese, che restano a lungo di tipo tradizionale e sono quindi assai poco dinamiche; la seconda caratteristica è data dalla commistione tra pubblico e privato in economia con i connessi gravi rischi di abusi e corruzione. In Italia la spaccatura fra grandi e piccole imprese e la commistione tra pubblico e privato divennero ancora più accentuate durante la prima guerra mondiale, per via delle commesse militari, e poi nelle vicende che seguirono la crisi del 1929, che costrinse il governo a compiere numerosi salvataggi di grandi banche e grandi imprese.


Sotto l'aspetto civile, occorre tener ben presente che sino al 1912 in Italia c'era, bensì, una libertà politica degna di considerazione, ma la democrazia era assai circoscritta. Aveva diritto al voto poco più di un decimo della popolazione. Nel 1913 il suffragio divenne più ampio - il diritto di voto fu esteso a circa un quinto della popolazione, che era tuttavia pur sempre una minoranza -.In quel tempo la stragrande maggioranza degli italiani era analfabeta o semi-analfabeta. Dopo due anni venne la guerra e poi il fascismo.Pertanto, nel nostro paese la democrazia è un fenomeno relativamente recente.


Tutto questo ha favorito una situazione di non partecipazione o di separatezza tra classe politica e popolazione. Fino alla prima guerra mondiale tale separatezza non fomentò, come era possibile, una diffusa corruzione nella vita politica ai più alti livelli poiché in quel tempo di regola - ma non sono rare le eccezioni - si dedicavano alla politica membri di cospicue famiglie borghesi o dell'aristocrazia terriera, tutte persone che non pensavano certo alla politica come mezzo per migliorare le loro condizioni economiche o addirittura per arricchirsi. Diversamente stavano le cose al livello politico locale, soprattutto nel Mezzogiorno, come il meridionale Gaetano Salvemini mise spietatamente in evidenza in scritti famosi, ed in certe porzioni dell'economia, specialmente là dove aveva luogo la commistione cui ho accennato. In politica, almeno al vertice, gli standard morali erano relativamente buoni.


Con la prima guerra mondiale, soprattutto attraverso i gradi intermedi dell'esercito, e subito dopo la guerra, entrano tumultuosamente sulla scena sociale e politica schiere di persone appartenenti alla media e piccola borghesia (specialmente piccola borghesia impiegatizia), schiere già in espansione e la cui crescita riceve un vigoroso impulso dalla guerra. Qui non sono rari purtroppo gli individui famelici e di moralità scadente - la fame si rivolge non solo verso il danaro, ma anche verso il potere e l'influenza sociale -; per affermarsi, questi individui vanno sia a destra che a sinistra, e sia all'estrema destra che all'estrema sinistra. Le violente lotte sociali nel primo dopoguerra, l'angoscia per il bolscevismo, l'ascesa del fascismo sono da considerare in questo quadro.


La separatezza fra popolazione e classe politica diventa acuta con la dittatura fascista e la corruzione si estende soprattutto fra gli alti gerarchi. Diviene tuttavia galoppante dopo la seconda guerra mondiale e specialmente negli ultimi vent'anni. Come in ogni paese che perde una guerra, la sconfitta che conclude la seconda guerra mondiale rappresenta un trauma grave per l'intera società. Nel nostro paese il trauma è stato gravissimo non solo per le sofferenze di ogni genere ma anche per l'impressionante contrasto fra retorica militaresca e imperialistica e penosa realtà, un contrasto messo a nudo prima dall'assai infelice campagna di Grecia e poi dalla tragica spedizione in Russia. Il trauma non è stato ancora superato ed è rimasta, almeno in parte, quella scarsa fiducia in se stessi che spinge molti italiani ad atteggiamenti spietatamente autocritici, che stupiscono non pochi stranieri. Finita la guerra nel modo tragico e vergognoso che ben conosciamo - la catastrofe non fu solo militare, ma anche politica e morale - numerosi giovani si rivolsero al Partito comunista, che usciva da quella spaventosa esperienza con grande prestigio grazie alle persecuzioni subìte e grazie alla Resistenza, che li aveva visti fra i più impegnati. Quei giovani, come molti altri, che si rivolgevano ad altri partiti avevano l'ansia di rinnovare radicalmente una società di cui la guerra aveva rivelato tare gravissime. Al tempo stesso, tutti coloro che aborrivano i comunisti e coloro che ad essi sembravano alleati o affini, si rivolgevano in gran parte verso la Democrazia cristiana che, grazie soprattutto al capillare sostegno anche organizzativo della Chiesa cattolica, si presentava come il "baluardo contro il comunismo".


Lo scontro di cui ho parlato va visto in un tale contesto.


La crisi economica e finanziaria


Fra le tre aree di Smith - cultura, istituzioni, economia - non sussistono paratie stagne; e gli stessi problemi economici che oggi affliggono il nostro paese sono in vari modi collegati con la crisi ideologico-politica e con la crisi istituzionale. L'incubo del nostro paese e della classe politica è costituito dall'enorme debito pubblico; esso rappresenta anche il principale ostacolo al nostro pieno ingresso in Europa. Il debito pubblico ha raggiunto le dimensioni che conosciamo anche per effetto dei prezzi pagati per fini di stabilizzazione sociale e politica. Lo stato sociale s'inseriva in una tendenza comune a tutti i paesi industrializzati; ma in Italia esso ha assunto i connotati assistenziali e clientelari che conosciamo - sia rispetto agli utenti sia nell'ambito dei pletorici apparati che lo amministrano - perché nella pratica politica i fattori cui accennavo hanno avuto un peso di rilievo.


Al fabbisogno finanziario derivante dai disavanzi di bilancio lo Stato fa fronte con la vendita di titoli pubblici: non occorre aderire alla teoria monetarista per riconoscere che disavanzi sistematicamente finanziati con la stampa di biglietti aggravano l'inflazione. Difatti, oramai da tempo i governi evitano di seguire questa strada. Anno per anno però il disavanzo tende a crescere a causa del crescente onere per interessi, salvo che non si attuino adeguati tagli di spesa o non si accrescano i tributi - due vie politicamente assai difficili da percorrere -. Se, com'è accaduto in Italia da parecchi anni, il disavanzo complessivo aumenta ed aumenta il volume dei titoli da vendere, il tasso dell'interesse subisce una spinta verso l'alto, per convincere i risparmiatori a cedere allo Stato una parte cospicua dei loro risparmi. Il volume dei titoli da vendere è dunque il primo determinante del tasso dell'interesse. Il secondo determinante è costituito dall'intensità della pressione inflazionistica. Un terzo determinante è di carattere internazionale: per sostenere la quotazione della lira rispetto alle altre monete e contrastare l'inflazione importata occorre mantenere l'interesse ad un livello tale da scoraggiare l'esodo di capitali e, se occorre, da attirare capitali dall'estero. Cosicché, se nei paesi con cui abbiamo relazioni commerciali e finanziarie l'interesse tende a flettere, una tale flessione imprime una spinta verso il basso anche all'interesse interno, com'è accaduto fino a pochi mesi fa. Tuttavia, se cresce la massa dei titoli da vendere, è ben difficile che possa aver luogo una significativa riduzione dell'interesse. Ora, un interesse relativamente alto ha conseguenze negative sia sugli investimenti pubblici che su quelli privati. Sui primi un alto interesse ha conseguenze negative poiché, quando la massa dei titoli da vendere è grande e crescente, il gravoso onere per interessi induce il governo a comprimere tutte le spese che politicamente possono essere compresse, a cominciare dalle spese per investimenti. Quanto al settore privato, un alto interesse decurta i profitti netti e in questo modo frena gli investimenti. Ma gli investimenti rappresentano la molla principale dello sviluppo: bassi investimenti comportano uno sviluppo basso o nullo. Proprio per questo motivo un aumento dell'interesse a breve a volte è usato dalla banca centrale per indurre sindacati e associazioni padronali a contenere gli aumenti dei salari.


In tutti i paesi industrializzati dal 1989 e fino all'autunno del 1993 le economie si sono dibattute in una situazione vicina al ristagno e la schiera dei disoccupati è decisamente aumentata. Dall'autunno del 1993 si è profilata una ripresa economica internazionale, che ha ridotto in misura sensibile la quota dei disoccupati negli Stati Uniti, dove la ripresa è stata netta, mentre l'ha ridotta molto poco in Europa e, in particolare, in Italia. Bisogna osservare che la disoccupazione può aumentare anche quando la produzione non diminuisce, per effetto dell'aumento della produttività, che procede quasi senza interruzione anche quando c'è ristagno. Bisogna anche osservare che un certo ammontare di disoccupati è fisiologico, giacché si ricollega al tempo occorrente, per i giovani, per cercare un impiego e, per tutti, per cambiare lavoro. La disoccupazione raggiunge e supera livelli patologici quando il tempo per la ricerca e il cambiamento diviene molto lungo. In questo dopoguerra si è notato che la disoccupazione fisiologica - o "di attrito" - che permane anche in condizioni di sostenuta espansione, è andata crescendo, essenzialmente perché, con l'aumento del livello medio d'istruzione e col miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, coloro che desiderano trovare o cambiare occupazione sono in grado di attendere più a lungo. Quando c'è ristagno cresce la divergenza fra lavori desiderati e lavori disponibili; e poiché ben difficilmente un laureato o un diplomato accetterà un posto di lavapiatti o di facchino nei mercati generali, la disoccupazione non potrà non aumentare. Né giova affermare che la disoccupazione non esisterebbe se tutti fossero disposti ad accettare qualsiasi lavoro, giacché la divergenza cui ho accennato denuncia un problema genuino. Problemi di tal genere sono frequenti soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia.



Più in generale, occorre osservare che da circa vent'anni la velocità della crescita è diminuita in tutti i paesi industrializzati (in Italia il saggio di aumento annuale medio del prodotto lordo è sceso dal 5,5% al 2,5%): effetto, questo, di diversi fattori, tra cui è da ricordare la sempre più vigorosa concorrenza mossa, in modo diretto o indiretto, da un numero crescente di paesi del Terzo mondo, sia in certe produzioni di base, come l'acciaio e la chimica, sia in diverse produzioni di beni di consumo, come i prodotti tessili e le calzature. Per i paesi industrializzati la via maestra per contrastare gli effetti negativi di tale concorrenza è di accelerare la crescita delle produzioni ad alta tecnologia, ciò che comporta un'intensificazione degli sforzi per la ricerca. In questo campo l'Italia è in grave ritardo.

Edited by L'Avvocato del Diavolo - 14/3/2008, 18:52
 
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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 14/3/2008, 18:49




Stato e mercato


Oggi hanno luogo vivaci discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia paesi decisamente statalisti, come l'Italia. Il problema della riduzione dell'area pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi ideologica e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra particolarmente importante nel nostro paese, dove l'area pubblica è fra le più estese dei paesi industrializzati - mettendo da parte, beninteso, i paesi che facevano parte del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini profondamente diversi.


Quando si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l'azione pubblica nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica di scambi in cui sia la domanda che l'offerta fanno capo a tanti soggetti privati ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre parole, si fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di questo genere un mercato in cui l'offerta ovvero la domanda è controllata da un soggetto solo, sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che controlla il prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere considerati come mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente dall'azione di tanti e tanti soggetti:



  • il mercato del lavoro, la cui forma si approssima al monopolio bilaterale e nel quale, per di più, in certi paesi, come il nostro, è rilevante l'intervento pubblico;

  • il mercato delle aree fabbricabili, dove l'offerta è fortemente condizionata dall'autorità pubblica;

  • il mercato delle opere pubbliche, in cui è la domanda ad essere condizionata dall'autorità pubblica;

  • il mercato di beni e servizi che presuppongono concessioni da parte di autorità pubbliche, come ad esempio i telefoni, le acque minerali, le emittenti televisive e radiofoniche;

  • il mercato dei beni prodotti in regime di monopolio naturale, come l'energia elettrica;

  • i mercati di diversi prodotti industriali, come le armi e i prodotti farmaceutici, richiesti in misura significativa da organismi pubblici;

  • i mercati di molti prodotti agricoli, i cui prezzi sono in qualche modo regolati dall'autorità pubblica, anche per effetto di accordi internazionali, come quelli del Mercato comune europeo.



I mercati del credito sono condizionati non solo dalla banca centrale, che è un organismo pubblico, ma, più fondamentalmente, dall'autorità pubblica, che spesso controlla, attraverso pacchetti azionari di maggioranza, numerosi istituti di credito. Analogamente, sono controllate dall'autorità pubblica diverse grandi imprese industriali, società di assicurazione, di trasporto, di comunicazione. La scuola, la ricerca, la sanità sono attività in misura più o meno ampia - spesso molto ampia - gestite o controllate da autorità pubbliche. A conti fatti, sembra che il mercato operi pienamente solo nell'area, pur vasta, delle piccole imprese e nell'area delle medie e grandi imprese nei settori aperti alla concorrenza internazionale, anche se, in queste come in altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi per interessi e i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che a rigore alterano il libero gioco del mercato.


È dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per l'economia italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la domanda si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In effetti, se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del reddito nazionale - una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi europei -, negli Stati Uniti la quota, tutt'altro che modesta, è di circa il 35%; in quel paese è molto minore l'incidenza delle spese sociali, mentre è maggiore quella delle spese militari - in quel paese ha tuttora gran peso politico, oltre che economico, il così detto complesso militare-industriale -. È indubbio però che, nell'ambito dei paesi industrializzati, da noi l'intervento pubblico sia fra i più estesi. Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già osservato che il capitalismo moderno in Italia ha cominciato a svilupparsi con ritardo ed ha avuto bisogno fin da principio di interventi pubblici particolarmente robusti. Altri interventi, come quelli che portarono alla creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione di certi rami ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche, da esigenze strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche e di grandi imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica che ebbe inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena. Per bloccare un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della disoccupazione, lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e grandi banche. Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese all'iniziativa privata appena possibile. Ma per decenni sono state operate privatizzazioni solo in via eccezionale. Anzi, sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali e banchieri privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto due casi - petrolio ed elettricità - in cui l'intervento pubblico è stato compiuto perché si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine, in Italia l'allargamento dell'intervento pubblico è stato favorito da correnti dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il corporativismo, il marxismo.


È necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall'economia o dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti - da tutti o da quasi tutti i partiti, di destra, di centro o di sinistra - nel loro stesso interesse: dal momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha significato controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche statizzate, con vantaggi di potere e con vantaggi economici.


Anche in Italia si è profilato un movimento contro l'intervento dello Stato e in favore delle privatizzazioni e del "mercato". Le resistenze sono grandi. Sotto l'aspetto dell'interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che giustificate, giacché l'allargamento dell'area statale nel nostro paese è andato ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte a favore delle privatizzazioni sono tre: 1) l'esigenza di una maggiore efficienza; 2) la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla vendita di imprese pubbliche; 3) l'esigenza di porre fine agli abusi di ogni genere perpetrati dai partiti nell'area statale. La prima motivazione ha una base incerta (quasi tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di società per azioni); la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la terza la motivazione di maggior rilievo.


La reazione all'intervento pubblico ed a favore del "mercato" significa cambiamento e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole, come alcuni sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei singoli che sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto giuridico e istituzionale, frutto di un'evoluzione plurisecolare: sistemi di contratti, tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di organismi pubblici addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni complesse, come quelle svolte da intermediari finanziari e da società per azioni, condizionano, racchiudono ed anzi costituiscono il mercato.


Come nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia e fuori, concetti gravemente erronei.


Il liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono. In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa libertà del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo spazio assegnato ai mercati in libera concorrenza, con l'eliminazione delle posizioni di monopolio, là dove ciò è possibile, e con l'introduzione di controlli di vario genere per le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho dato esempi più sopra; infine, il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia all'"eccesso" dell'intervento pubblico in economia.


Due riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado d'intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno se come misura si usa la quota delle spese pubbliche.


Io sostengo che in Italia l'intervento pubblico è andato troppo avanti, non solo per motivi legati all'evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.


Seconda riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo, era, in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale, era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente contrario ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere l'intervento pubblico nell'economia, ma in questa direzione non si spingeva affatto così lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi limito a ricordare che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non due: oltre la difesa e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione di quelle opere pubbliche e la creazione di quelle istituzioni, specialmente nell'area dell'istruzione, che non sono - o non sono sufficientemente - profittevoli per i privati, mentre sono vantaggiose "per una grande società".


Mutamenti della struttura sociale


Conviene riflettere sui dati delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro paese dopo la fine della guerra.




Tab. 1. Categorie economiche (composizione percentuale)
 1951197119831993
1. Agricoltura43%18%13%9%
2. Industria e artigianato35%42%35%32%
3. Servizi15%30%36%41%
4. Pubblica amministrazione7%10%16%18%


Tab. 2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)
 1951197119831993
1. "Borghesia"2%3%3%3%
2. Classi medie urbane

di cui:
26%38%46%52%
impiegati privati5%9%10%11%
impiegati pubblici8%11%16%18%
artigiani5%5%6%6%
commercianti6%8%9%11%
3. Contadini proprietari31%12%8%6%
4. Classe operaia

di cui:
41%47%43%39%
salariati agricoli12%6%4%3%
operai dell'industria23%31%28%25%
commercio, trasporti e servizi6%10%11%11%

Sotto l'aspetto delle categorie economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti sono avvenute in agricoltura (l'esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi - ormai l'occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della popolazione attiva -. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali, è fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti i commercianti - circa il doppio -, mentre la "classe operaia", dopo essere aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non arriva al 40%.


Queste profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte. In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l'avvertenza che il divario economico fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale, che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951 negli ultimi anni.


Queste quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud e Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la delinquenza minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell'intera società, in generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità più bassa della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere addirittura in direzione opposta.


Le trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione delle posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso della così detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle grandi imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del sindacato. Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti di tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di questo tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in tempi brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti - proprietari terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell'industria e dei servizi -. Così l'orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto, comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali, politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla crisi ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.


La fluidità della situazione politica


La crisi in atto nel nostro paese ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica quali ben raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro dov'è la destra e dove la sinistra. L'intero quadro politico è in via di radicale trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell'ubiquità politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono ulteriormente allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in passato. La frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico, è ancora più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai lavoratori salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia che fa capo alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi imprese oggi sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si dibattono le imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più complesso dalla presenza di una non trascurabile schiera d'immigrati extra-comunitari, che sono disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i lavoratori italiani, anche quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a svolgere. Fra coloro che avversano un'ulteriore restrizione dei flussi d'immigrazione ci sono persone che paventano le difficoltà economiche conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano le capacità di adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore meccanizzazione di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle importazioni di certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un allargamento dell'immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare che il modo per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani non è questo, ma sta nel predisporre, d'accordo con altri paesi europei, progetti di sviluppo scolastico ed educativo (ciò che, fra l'altro, può contribuire alla flessione della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa nel campo della produzione, a cominciare dall'agricoltura.


Le prospettive


Se le prospettive immediate sono caratterizzate da grande fluidità, per le prospettive non immediate dobbiamo riconoscere che siamo entrati in una crisi gravissima, da cui tuttavia possiamo uscire in tempi non lunghi, anche se non brevi, e possiamo avviarci a divenire un paese veramente e pienamente civile. Ciò potrà accadere se sapremo introdurre alcune riforme essenziali, non solo nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola, dell'Università, della ricerca. Chi studia l'evoluzione della società inglese nel secolo scorso può trarre motivi di conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella società erano profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi: la pubblica amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta, dopo alcune importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In effetti, di motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento che stiamo vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.

 
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