La Crisi Italiana, di Paolo Sylos Labini

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L'Avvocato del Diavolo
view post Posted on 14/3/2008, 18:49 by: L'Avvocato del Diavolo




Stato e mercato


Oggi hanno luogo vivaci discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia paesi decisamente statalisti, come l'Italia. Il problema della riduzione dell'area pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi ideologica e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra particolarmente importante nel nostro paese, dove l'area pubblica è fra le più estese dei paesi industrializzati - mettendo da parte, beninteso, i paesi che facevano parte del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini profondamente diversi.


Quando si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l'azione pubblica nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica di scambi in cui sia la domanda che l'offerta fanno capo a tanti soggetti privati ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre parole, si fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di questo genere un mercato in cui l'offerta ovvero la domanda è controllata da un soggetto solo, sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che controlla il prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere considerati come mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente dall'azione di tanti e tanti soggetti:



  • il mercato del lavoro, la cui forma si approssima al monopolio bilaterale e nel quale, per di più, in certi paesi, come il nostro, è rilevante l'intervento pubblico;

  • il mercato delle aree fabbricabili, dove l'offerta è fortemente condizionata dall'autorità pubblica;

  • il mercato delle opere pubbliche, in cui è la domanda ad essere condizionata dall'autorità pubblica;

  • il mercato di beni e servizi che presuppongono concessioni da parte di autorità pubbliche, come ad esempio i telefoni, le acque minerali, le emittenti televisive e radiofoniche;

  • il mercato dei beni prodotti in regime di monopolio naturale, come l'energia elettrica;

  • i mercati di diversi prodotti industriali, come le armi e i prodotti farmaceutici, richiesti in misura significativa da organismi pubblici;

  • i mercati di molti prodotti agricoli, i cui prezzi sono in qualche modo regolati dall'autorità pubblica, anche per effetto di accordi internazionali, come quelli del Mercato comune europeo.



I mercati del credito sono condizionati non solo dalla banca centrale, che è un organismo pubblico, ma, più fondamentalmente, dall'autorità pubblica, che spesso controlla, attraverso pacchetti azionari di maggioranza, numerosi istituti di credito. Analogamente, sono controllate dall'autorità pubblica diverse grandi imprese industriali, società di assicurazione, di trasporto, di comunicazione. La scuola, la ricerca, la sanità sono attività in misura più o meno ampia - spesso molto ampia - gestite o controllate da autorità pubbliche. A conti fatti, sembra che il mercato operi pienamente solo nell'area, pur vasta, delle piccole imprese e nell'area delle medie e grandi imprese nei settori aperti alla concorrenza internazionale, anche se, in queste come in altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi per interessi e i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che a rigore alterano il libero gioco del mercato.


È dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per l'economia italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la domanda si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In effetti, se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del reddito nazionale - una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi europei -, negli Stati Uniti la quota, tutt'altro che modesta, è di circa il 35%; in quel paese è molto minore l'incidenza delle spese sociali, mentre è maggiore quella delle spese militari - in quel paese ha tuttora gran peso politico, oltre che economico, il così detto complesso militare-industriale -. È indubbio però che, nell'ambito dei paesi industrializzati, da noi l'intervento pubblico sia fra i più estesi. Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già osservato che il capitalismo moderno in Italia ha cominciato a svilupparsi con ritardo ed ha avuto bisogno fin da principio di interventi pubblici particolarmente robusti. Altri interventi, come quelli che portarono alla creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione di certi rami ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche, da esigenze strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche e di grandi imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica che ebbe inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena. Per bloccare un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della disoccupazione, lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e grandi banche. Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese all'iniziativa privata appena possibile. Ma per decenni sono state operate privatizzazioni solo in via eccezionale. Anzi, sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali e banchieri privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto due casi - petrolio ed elettricità - in cui l'intervento pubblico è stato compiuto perché si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine, in Italia l'allargamento dell'intervento pubblico è stato favorito da correnti dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il corporativismo, il marxismo.


È necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall'economia o dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti - da tutti o da quasi tutti i partiti, di destra, di centro o di sinistra - nel loro stesso interesse: dal momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha significato controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche statizzate, con vantaggi di potere e con vantaggi economici.


Anche in Italia si è profilato un movimento contro l'intervento dello Stato e in favore delle privatizzazioni e del "mercato". Le resistenze sono grandi. Sotto l'aspetto dell'interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che giustificate, giacché l'allargamento dell'area statale nel nostro paese è andato ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte a favore delle privatizzazioni sono tre: 1) l'esigenza di una maggiore efficienza; 2) la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla vendita di imprese pubbliche; 3) l'esigenza di porre fine agli abusi di ogni genere perpetrati dai partiti nell'area statale. La prima motivazione ha una base incerta (quasi tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di società per azioni); la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la terza la motivazione di maggior rilievo.


La reazione all'intervento pubblico ed a favore del "mercato" significa cambiamento e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole, come alcuni sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei singoli che sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto giuridico e istituzionale, frutto di un'evoluzione plurisecolare: sistemi di contratti, tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di organismi pubblici addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni complesse, come quelle svolte da intermediari finanziari e da società per azioni, condizionano, racchiudono ed anzi costituiscono il mercato.


Come nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia e fuori, concetti gravemente erronei.


Il liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono. In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa libertà del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo spazio assegnato ai mercati in libera concorrenza, con l'eliminazione delle posizioni di monopolio, là dove ciò è possibile, e con l'introduzione di controlli di vario genere per le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho dato esempi più sopra; infine, il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia all'"eccesso" dell'intervento pubblico in economia.


Due riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado d'intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno se come misura si usa la quota delle spese pubbliche.


Io sostengo che in Italia l'intervento pubblico è andato troppo avanti, non solo per motivi legati all'evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.


Seconda riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo, era, in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale, era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente contrario ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere l'intervento pubblico nell'economia, ma in questa direzione non si spingeva affatto così lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi limito a ricordare che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non due: oltre la difesa e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione di quelle opere pubbliche e la creazione di quelle istituzioni, specialmente nell'area dell'istruzione, che non sono - o non sono sufficientemente - profittevoli per i privati, mentre sono vantaggiose "per una grande società".


Mutamenti della struttura sociale


Conviene riflettere sui dati delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro paese dopo la fine della guerra.




Tab. 1. Categorie economiche (composizione percentuale)
 1951197119831993
1. Agricoltura43%18%13%9%
2. Industria e artigianato35%42%35%32%
3. Servizi15%30%36%41%
4. Pubblica amministrazione7%10%16%18%


Tab. 2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)
 1951197119831993
1. "Borghesia"2%3%3%3%
2. Classi medie urbane

di cui:
26%38%46%52%
impiegati privati5%9%10%11%
impiegati pubblici8%11%16%18%
artigiani5%5%6%6%
commercianti6%8%9%11%
3. Contadini proprietari31%12%8%6%
4. Classe operaia

di cui:
41%47%43%39%
salariati agricoli12%6%4%3%
operai dell'industria23%31%28%25%
commercio, trasporti e servizi6%10%11%11%

Sotto l'aspetto delle categorie economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti sono avvenute in agricoltura (l'esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi - ormai l'occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della popolazione attiva -. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali, è fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti i commercianti - circa il doppio -, mentre la "classe operaia", dopo essere aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non arriva al 40%.


Queste profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte. In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l'avvertenza che il divario economico fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale, che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951 negli ultimi anni.


Queste quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud e Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la delinquenza minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell'intera società, in generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità più bassa della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere addirittura in direzione opposta.


Le trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione delle posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso della così detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle grandi imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del sindacato. Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti di tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di questo tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in tempi brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti - proprietari terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell'industria e dei servizi -. Così l'orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto, comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali, politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla crisi ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.


La fluidità della situazione politica


La crisi in atto nel nostro paese ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica quali ben raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro dov'è la destra e dove la sinistra. L'intero quadro politico è in via di radicale trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell'ubiquità politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono ulteriormente allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in passato. La frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico, è ancora più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai lavoratori salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia che fa capo alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi imprese oggi sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si dibattono le imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più complesso dalla presenza di una non trascurabile schiera d'immigrati extra-comunitari, che sono disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i lavoratori italiani, anche quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a svolgere. Fra coloro che avversano un'ulteriore restrizione dei flussi d'immigrazione ci sono persone che paventano le difficoltà economiche conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano le capacità di adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore meccanizzazione di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle importazioni di certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un allargamento dell'immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare che il modo per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani non è questo, ma sta nel predisporre, d'accordo con altri paesi europei, progetti di sviluppo scolastico ed educativo (ciò che, fra l'altro, può contribuire alla flessione della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa nel campo della produzione, a cominciare dall'agricoltura.


Le prospettive


Se le prospettive immediate sono caratterizzate da grande fluidità, per le prospettive non immediate dobbiamo riconoscere che siamo entrati in una crisi gravissima, da cui tuttavia possiamo uscire in tempi non lunghi, anche se non brevi, e possiamo avviarci a divenire un paese veramente e pienamente civile. Ciò potrà accadere se sapremo introdurre alcune riforme essenziali, non solo nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola, dell'Università, della ricerca. Chi studia l'evoluzione della società inglese nel secolo scorso può trarre motivi di conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella società erano profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi: la pubblica amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta, dopo alcune importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In effetti, di motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento che stiamo vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.

 
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